Il 20 febbraio si celebra la Giornata Mondiale della Giustizia Sociale.
Tale ricorrenza è stata proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione A/RES/62/10 del 26 Novembre 2007, al fine di riaffermare che lo sviluppo sociale e la giustizia sociale sono indispensabili per il raggiungimento e il mantenimento della pace e della sicurezza nelle nazioni e nei rapporti tra esse e che, inoltre, lo sviluppo sociale e la giustizia sociale non possono a loro volta essere raggiunti in assenza di pace, di sicurezza e del rispetto di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
La celebrazione della Giornata mira, pertanto, a promuovere e consolidare gli sforzi della comunità internazionale volti all’eliminazione della povertà, alla promozione della piena occupazione e del lavoro dignitoso, all’uguaglianza di genere e all’accesso al benessere sociale e alla giustizia per tutti.
Assicurare un mondo più giusto, più equo e per tutti, basato sulla giustizia sociale e sul rispetto di tutti i diritti umani, ridurre la povertà e lo svantaggio economico e sociale, combattere le disuguaglianze, rendere le società sempre più inclusive e aumentare le opportunità di lavoro dignitoso: sono questi gli ambiziosi obiettivi che la Giornata mondiale per la giustizia sociale invita a perseguire.
Tuttavia, ad oggi si constata che permangono ancora importanti sfide da affrontare, quali le gravi crisi finanziarie, l’insicurezza, la povertà, l’esclusione e la disuguaglianza, così come i notevoli ostacoli per l’integrazione e la piena partecipazione all’economia globale per i paesi in via di sviluppo e per alcuni paesi con economie in transizione.
Questa ricorrenza rappresenta l’occasione per mettere in luce soprattutto il persistere di profondi divari economici e forti diseguaglianze sociali, esistenti tra le diverse aree del mondo ma anche all’interno del nostro stesso Paese, che la pandemia certamente ha contribuito ad esacerbare.
Sul tema, un approfondimento a cura di Openpolis e Con i Bambini sottolinea che l’istruzione equa rappresenta il primo strumento di giustizia sociale, evidenziando che per ridurre le disuguaglianze sociali occorre intervenire su quelle educative.
L’analisi mette in risalto come uno dei principali fattori di disuguaglianza sia proprio l’accesso all’istruzione: un elemento che più di altri tende a rendere maggiormente ereditaria la condizione socio-economica di partenza.
Soprattutto in Italia, in misura maggiore rispetto ad altri paesi europei, risulta esservi una forte correlazione tra basso titolo di studio dei genitori e rischio di abbandono precoce da parte dei figli. Di conseguenza, oggi chi nasce in famiglie con basso titolo di studio è più probabile che abbandoni la scuola. In particolare, se in media nei paesi Ocse nel 42% dei casi i figli di chi non ha il diploma non si diplomano a loro volta, nel nostro Paese tale quota raggiunge il 64%: ciò significa che in 2/3 dei casi i figli di genitori non diplomati non raggiungono il diploma superiore.
Questa tendenza ha implicazioni fortemente negative: la dinamica per cui è proprio chi viene dalle famiglie più svantaggiate a lasciare la scuola prima del tempo è il fattore che rafforza, e rende ereditaria, una condizione di deprivazione. Restare indietro sul versante educativo ha infatti conseguenze su tutto il percorso di vita successivo, dal momento che, come mostrato nell’approfondimento dedicato, un livello di istruzione più basso si associa anche ad una minor occupabilità.
In particolare, i dati evidenziano che un basso titolo di studio corrisponde più spesso a disoccupazione e inattività: nella fascia tra i 25-64 anni, in presenza di un titolo di studio terziario (come la laurea), il tasso di disoccupazione si attesta al 5,1% e quello di inattività al 14,8%; in mancanza del diploma, con un titolo di studio al massimo secondario inferiore, tali quote salgono rispettivamente al 11,9% e al 41,3%.
Si tratta di una tendenza valida soprattutto per i più giovani, i quali si affacciano oggi a un mercato del lavoro che richiede sempre più competenze.
Confrontando i dati relativi ai principali paesi Ue dal 2008 a oggi, emerge che in media tra i 27 stati membri, la quota di occupati tra i giovani di 18-24 anni usciti precocemente dal sistema di istruzione e formazione è passata da 54,2% del 2008 al 42,4% nel 2020.
In Italia, si è registrato un calo ancora più netto: se nel 2008 circa la metà dei giovani italiani (il 51%) che avevano abbandonato la scuola e la formazione prima del tempo era comunque occupato, nel 2020 tale percentuale è scesa a circa uno su 3 (il 33,2%, ossia quasi 18 punti percentuali in meno).
Rispetto a Francia, Germania, Spagna e media UE a 27 Paesi, l’Italia è poi il Paese dove il tasso di occupazione di chi è uscito dal sistema di istruzione e formazione prima del tempo risulta più basso nel 2020.
Questi dati contribuiscono così ad evidenziare come l’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione sia una variabile cruciale per migliorare la propria condizione socio-economica. Alla luce di questo, spezzare il legame tra titolo di studio dei genitori e livello di istruzione dei figli diviene una sfida essenziale.
Proprio in quest’ottica, allora, risulta fondamentale in primis garantire l’accesso a un’istruzione equa e di qualità per tutti, a prescindere dalle condizioni di partenza.
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